A fine febbraio 2000, Telecom Italia era il titolo più scambiato a Piazza Affari (circa il 10% degli scambi del mese) e la capitalizzazione di questa società (il prezzo delle azioni moltiplicato per il numero delle azioni emesse) sfiorava i 100 miliardi di euro. All’epoca era quotato anche il braccio nel “mobile” Tim che capitalizzava poco meno. Circa 95 miliardi di euro.
La Borsa Italiana si poteva dire “Telecom” dipendente visto che il peso di queste 2 società valeva il 23% di Piazza Affari.
Oggi il gruppo Telecom Italia capitalizza a Piazza Affari 5,7 miliardi di euro (e la Tim è stata fusa dentro Telecom Italia nel 2005) con l’obiettivo di “creare valore”.
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Il risultato concreto è stato, invece, aumentare ancora l’indebitamento che pesa non poco su questo gruppo attivo in un settore che ha visto i margini sempre assottigliarsi anche per effetto di una concorrenza sempre più feroce trainata da innovazioni di ogni tipo che hanno quasi azzerato (rispetto a un tempo) i costi della bolletta telefonica.
Da fine febbraio 2000 a oggi, il possessore di azioni Telecom che avesse mantenuto in portafoglio sempre il titolo (incassando naturalmente i dividendi) sarebbe oggi comunque in perdita del -94% e oggi il controvalore scambiato su Telecom Italia vale circa il 3% di Piazza Affari!
Una distruzione di valore decisamente impressionante anche considerato che i report su questo titolo delle principali banche d’affari sono quasi sempre stati in questi decenni positivi (“buy” o al limite “hold” ovvero tenere) e molti risparmiatori italiani sono rimasti incastrati da questa “blue chip”, mantenendola per lungo tempo in portafoglio, poiché “dove vuoi che vada…tanto non più scendere sempre” o “aspetto che ritorni al prezzo di acquisto e poi al limite la vendo” oppure “paga comunque dei buoni dividendi” oppure “io sono un investitore compra e tieni”.
Le vicissitudini societarie, finanziarie e industriali di Telecom Italia sono abbastanza note e non è obiettivo di questo podcast ripercorrere le tappe, perchè non basterebbe un libro.
Come caso di scuola, l’ascesa e la caduta di Telecom Italia è, però, estremamente importante da osservare per un investitore intelligente e merita qualche riflessione sugli errori che si dovrebbero evitare nel costruire un portafoglio da “cassettista”.
L’idea che tutti noi come investitori ogni tanto accarezziamo che basti acquistare un certo numero di azioni di rango o di nome e magari pure in numero limitato per ritrovarci dopo qualche lustro un capitale moltiplicato rispetto a quello investito grazie alla bontà delle scelte effettuate e al potere dell’interesse composto.
Nella maggior parte dei casi, purtroppo, l’evidenza statistica ed empirica ci dice che le cose non vanno purtroppo in questo modo e prima lo capiamo, meglio è.
Sono innumerevoli i casi di società quotate che un tempo erano delle “stelle” del listino (con prospettive giudicate eccezionali per il futuro o super “sottovalutate”) finite poi nella “stalle” o nel girone dei titoli “deludenti”.
Ovvero quei titoli che nel tempo hanno performance nettamente peggiori del mercato. Basta andare a vedere di qualsiasi indice quali erano i campioni di un tempo come capitalizzazione e vedere come è profondamente cambiato il ranking nel tempo in termini assoluti o relativi.
E che quello di “stock picker” sia un mestiere difficile ce lo dicono le statistiche di tutto il mondo dove nemmeno gli investitori professionali riescono nel tempo a battere gli indici, ovvero a fare meglio del mercato in oltre l’80% dei casi su un orizzonte temporale di qualche anno.
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